La Cina che non vorremmo vedere
TIBET- Le proteste dei monaci buddhisti e del popolo tibetano in atto in queste ore a Lhasa, vanno sostenute: per il rispetto dei Diritti Umani e delle libertà fondamentali di parola, di opinione, di assemblea, e per il rispetto delle vite che in queste battaglie stanno andando perse. Ma la condanna all’operato della Cina, sulla brutale repressione militare culminata con decine di arresti e contro le violenze che si susseguono in questi giorni in tutto il Tibet e nei grandi monasteri di Ganden, Sera e Drepung, oltre a dover essere unanime, è sopratutto doverosa. Nonostante sia "impossibile boicottare le Olimpiadi" come denuncia una vignetta di Ellekappa dalle pagine di Repubblica (15 marzo), perchè "si rischierebbe un incidente diplomatico con gli sponsor”, la protesta corre sul web. Uno dei maggiori problemi della Repubblica Popolare Cinese –secondo il Dalai Lama, Premio Nobel per
In una Cina dove le elezioni legittimano e riaffermano sempre lo stesso regime -il presidente cinese Hu Jintao è stato infatti rieletto ad un secondo mandato di cinque anni dall'Assemblea Nazionale del Popolo con il 99,7% dei voti quasi (ANSA)- si moltiplicano gli arresti e le torture dei reporter, dei sostenitori dei Diritti Umani, dei loro avvocati, dei dissidenti, e sono già stati oscurati quasi tremila siti Internet.
Del resto, si legge in un comunicato stampa de Gli Amici del Tibet “il regime autoritario cinese è il più grande stato killer del mondo, con circa 10mila condanne a morte l'anno (più del 77% delle esecuzioni accertate sul totale mondiale)”.
“In Tibet –prosegue il comunicato-
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