Carcere femminile: poche speranze di ritorno alla "vita normale"
ROMA - Nel carcere romano di Rebibbia sono 360 le donne recluse: 200 sono le straniere, 60 le giovanissime tra i 18 e i 25 anni, 29 le madri con bambini, 110 le tossicodipendenti, 150 per reati connessi alla droga. Critica la situazione delle immigrate che, prive spesso di adeguati permessi di soggiorno e documenti di identità “arrivano anche a scontare anni di carcerazione senza poter avere un colloquio con i propri familiari e i propri figli”.
“La comunità carceraria femminile viene continuamente modificata dalla presenza sempre più numerosa di donne detenute per reati connessi alla droga”, afferma l’ispettrice Annibàli, precisando che a Rebibbia femminile sono ben 150 le donne che hanno commesso una violazione della legge sulle sostanze stupefacenti). Mentre molte altre sono dentro per sfruttamento della prostituzione, per reati contro il patrimonio e per omicidio. Insomma, spiega Annibàli, la popolazione del carcere è cambiata: “tra le donne aumentano le giovani e soprattutto le giovani straniere e in generale il quadro appare più complesso”.
Il carcere non fa che accrescere il disagio delle donne immigrate. Molte di esse, infatti, spiega Annibàli, “essendo prive di adeguata documentazione relativamente a permessi di soggiorno e documenti di identità, arrivano a scontare anni di carcerazione senza poter avere un colloquio con i propri familiari e i propri figli”. Una situazione che diventa ancora più drammatica nel caso delle donne che arrivano dal continente africano in quanto “le rispettive ambasciate spesso non riescono a fornire adeguate informazioni sulle famiglie e sulle utenze telefoniche delle donne, con la conseguente impossibilità di avere colloqui telefonici con i familiari”.
Inoltre, prosegue l’ispettrice, “per le detenute straniere sarà certamente più difficile, se non impossibile, trovare un sostegno nel mondo esterno, una casa e un lavoro, tale da poter far ritenere al giudice che non sussistano gravi indizi di possibile reiterazione del reato o il pericolo di fuga”. Nell’istituto, poi, fanno ingresso molte donne senza fissa dimora, per le quali – precisa Annibali – “il reato non è qualcosa di grave ed è diventato la loro professione”. Per le donne Rom – per esempio – il furto spesso non è considerato reato, ma una normale attività per sopravvivere. E una persona fortemente recidiva difficilmente riuscirà a ottenere “dal Tribunale di sorveglianza una valutazione positiva in merito al fatto che non commetterà più questi reati”.
Un problema a parte e di forte complessità riguarda, infine, le donne tossicodipendenti che entrano in carcere per reati minori e con basse pene da scontare. “Esse rimangono spesso estranee alla vita collettiva del carcere e alle poche risorse che vengono offerte" –spiega l’ispettrice- con la conseguenza che quando escono ritornano facilmente nel circuito della dipendenza e della marginalità: un circolo vizioso che aumenta in maniera esponenziale le possibilità di rientrare in carcere.
(Redatotre Sociale)
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