Omaggio a Malalai Kakar

Era l'unica autorità a cui le donne afgane potevano rivolgersi per difendere i propri diritti e denunciare i soprusi, e l'unica che poteva investigare sui crimini che le vedevano coinvolte: «per le bambine è ugualmente difficile andare a scuola, come per le donne lavorare. Chi lo fa rischia di essere sfregiata in volto con l'acido solforico per mano dei talebani. Spesso le insegnanti che approntano corsi per sole donne sono minacciate di morte e uccise Da Buddismo e Società n.133 marzo/aprile 2009 (per gentile concessione)

È stato un assassinio annunciato quello della poliziotta afgana, tenente colonnello Malalai Kakar, avvenuto a opera di due terroristi talebani(1), a bordo di una moto, armati di kalashnikov, il 28 settembre 2008, a Kandahar nel sud dell'Afganistan. Durante l'agguato i terroristi hanno ferito gravemente anche suo figlio di diciotto anni, che è morto in ospedale; anch'egli era poliziotto e stava scortando, come ogni mattina, la madre al lavoro.


Malalai Kakar era divenuta un simbolo di emancipazione e un punto di riferimento delle donne afgane, e pertanto dal punto di vista della sharia(2) talebana un modello da non emulare. Nella strategia globale dei terroristi talebani alle stragi di massa, con attacchi suicidi su civili e militari, si affiancano obiettivi mirati, nell'intento di ostacolare il processo di democratizzazione e di riaffermazione di uno stato di legalità, per confermare attraverso la strategia del terrore i canoni fondamentalisti teocratici.


È in questa ottica che l'omicidio dell'ufficiale di polizia rappresentava quindi un obiettivo primario. Questo è confermato dalla rivendicazione, fatta immediatamente dopo l'assassinio all'agenzia France Press, dal portavoce dei talebani, lo studente di Dio Yusuf Ahmadi: «Abbiamo ucciso Malalai Kakar perché era un nostro obiettivo e lo abbiamo raggiunto con successo».


Malalai Kakar era perfettamente consapevole di rappresentare un bersaglio. Oltre ai continui messaggi di morte affissi sulla porta della sua abitazione, l'ufficiale che l'aveva preceduta nell'incarico di capo del Dipartimento dei crimini contro le donne era stata uccisa due anni prima, come pure un'altra donna, l'ufficiale di polizia Bibi Hoor, ventisei anni, uccisa nel giugno scorso dai talebani a Herat con una raffica di kalashnikov. Nonostante questo, Malalai Kakar era rimasta a svolgere il suo prezioso compito, dimostrando un coraggio, una fermezza e un senso del dovere fuori dal comune, qualità scaturite dall'amore per il proprio lavoro e per il proprio paese.


Kakar non si riteneva un'eroina dell'emancipazione femminile, ma sapeva di essere "semplicemente" l'unica autorità a cui le donne afgane potevano rivolgersi per difendere i propri diritti e per denunciare i soprusi subiti, e anche l'unica persona che poteva investigare sui crimini che vedevano coinvolte le donne sia come vittime che come ree. Andava in ospedale ad assistere le donne che gli stessi medici maschi si rifiutavano di visitare; svolgeva le funzioni di direttrice del carcere femminile; con il burqa riusciva a entrare nelle loro case per cogliere i segreti della loro sofferenza. In un'intervista aveva detto: «Nessuno mi forza ad indossare il burqa. Sia mio marito che la polizia non me lo chiedono. Lo voglio indossare perché mi comporta dei vantaggi. A Kandahar, per regioni culturali, le donne che escono di casa senza il burqa sono malviste; le persone potrebbero parlare male di mio marito. Così, indossandolo, proteggo la mia famiglia e me stessa». Grazie al burqa è potuta entrare in una casa fingendosi una vecchia zia e scoprire una donna incatenata al letto con il suo bambino da dieci mesi. Era una "moglie della vergogna", che rimasta vedova era stata data in sposa al cognato. «Le donne mi amano e mi fanno sentire forte contro le minacce di morte» dirà in un'intervista rilasciata nel 2004 alla BBC.


Malalai si considerava un donna forte, che voleva servire il suo paese: «Nel mio lavoro non ho niente di meno di un uomo. Sono coraggiosa, onesta e forte». La sua popolarità crebbe quando uccise tre talebani che le avevano teso un agguato. In un'operazione contro un covo di Al Queda ai primi colpi di arma da fuoco alcuni colleghi scapparono per paura, lei rimase sola con tre poliziotti affrontando una dozzina di talebani. Tornata in caserma ai colleghi fuggiti disse: «Per avere coraggio non è necessario avere la barba».


Nata nel 1967, apparteneva a uno dei più potenti clan del sud dell'Afghanistan di etnia pashtun, quello dei Kakar, che vantava tradizioni in ambito militare. Durante la monarchia del re Zahir Shah, e con il successivo governo repubblicano, Malalai aveva potuto studiare e nel 1982 entrare, come avevano già fatto i suoi fratelli, nell'accademia di polizia dove il padre, Gul Mohammed Kakar, insegna tuttora. Con l'ascesa al potere - tra il 1996 e il 1997 - del mullah Mohammed Omar, alle bambine era stata proibita l'istruzione e alle donne era vietato lavorare. Fu così che Malalai, come altri due milioni di profughi, fuggì in Pakistan con suo marito, un funzionario delle Nazioni Unite, col quale ebbe sei figli. «Venti anni fa io e Malalai vivevamo nello stesso distretto di Kandhar, al termine degli studi ci siamo innamorati e ci siamo sposati. Sono orgoglioso che Malalai lavori per il suo paese. Il nostro paese ha bisogno di lei», così il marito parlava di sua moglie.


Oggi, nella riconfermata repubblica del presidente Karzai, per le bambine è ugualmente difficile andare a scuola, come per le donne lavorare. Chi lo fa rischia di essere sfregiata in volto con l'acido solforico per mano dei talebani. Spesso le insegnanti che approntano corsi per sole donne sono minacciate di morte e uccise.


Nel 2001, con la caduta del regime talebano, Malalai torna nel suo paese e riprende il lavoro di poliziotta. «È un mestiere difficile - dirà - ma è importante che noi donne lo facciamo, se vogliamo diventare parte del nuovo Afganistan». Negli ultimi sei mesi sono stati trucidati più di settecentocinquanta agenti, tra cui alcune decine di poliziotte, e il primo gennaio di quest'anno in un attacco terroristico hanno visto la morte venti poliziotti nella provincia di Helmand. Nonostante queste difficoltà, Malalai incoraggiava altre donne ad arruolarsi in polizia per ampliare la sua squadra. Ciò che conforta è che dopo pochi giorni dalla sua morte un'altra donna ha preso il suo posto. Si fa chiamare "Parwana", e anche se non si conosce il suo vero nome ha già ricevuto diverse minacce di morte. Con lei c'è anche "Shafoqa", di diciannove anni, considerata la migliore tiratrice del paese. Si dice che lei non abbia paura di niente. I talebani le hanno già messo una fatwa sulla porta di casa dei genitori.


L'elenco delle donne afgane coraggiose assassinate è tragicamente lungo:
- Shaima Rezayee, ventiquattro anni, conduttrice televisiva, uccisa con un colpo alla testa;
- Safia Amajan, dirigente del Dipartimento affari femminili, uccisa perché gestiva in segreto scuole per ragazze;
- Zakia Zaki, direttrice di Peace Radio;
- Shakiba Sanga Amaj, presentatrice televisiva, uccisa accanto a suo figlio di venti mesi;
- Nadia Anjuman, poetessa, uccisa per i suoi versi;
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Da Buddismo e Società n.133 marzo/aprile 2009 (per gentile concessione)

Note
1) Il termine "talebano" deriva da taliban, plurale di talib, che in lingua pashto significa "studente" o meglio studente coranico. Il movimento dei talebani nacque quale gruppo di contrapposizione politico militare all'invasione sovietica dell'Afganistan. A livello di ideologia politica i talebani mirano a instaurare una teocrazia di tipo islamico.
2) Sharia, letteralmente "il sentiero verso la sorgente" o "via da seguire", tradotto anche come "Legge divina", è il complesso di norme religiose, giuridiche e sociali direttamente fondate sulla dottrina coranica. In essa convivono regole teologiche, morali, rituali e quelle che noi chiameremmo norme di diritto privato, affiancate da norme fiscali, penali, processuali e di diritto bellico.

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